Generalità
Il fosforo, simbolo chimico P, è un non-metallo abbastanza abbondante in natura (0,12% della crosta terrestre), dove però non si trova allo stato elementare ma sotto forma di fosfato (sale dell’acido fosforico H3PO4), prevalentemente fosfato di calcio, specialmente nella rocce sedimentarie
“fosforiti” e nei minerali “apatiti” (“fluorapatiti” in particolare). La fosforite è una roccia che deriva dalla sedimentazione, in ambiente marino, di ossa o di escrementi di vertebrati accumulati quasi sempre in corrispondenza di giunti di stratificazione. I giacimenti di fosforite rivestono un notevole interesse economico: il materiale fosfatico che se ne estrae viene o impiegato direttamente negli usi industriali o trattato in forni elettrici con sabbia e carbone per la preparazione del fosforo. I giacimenti più importanti di rocce fosfatiche si trovano negli USA (Florida, Tennessee) e nell’Africa settentrionale (Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto). In Italia non vi sono giacimenti di fosforiti, ma solo piccole accumulazioni sparse di resti fossili senza importanza pratica. La fluorapatite proviene soprattutto dalla penisola di Kola, in Russia.
Il fosforo elementare è molto reattivo e combinandosi con l’ossigeno emette una tenue luminescenza (da qui il suo nome, che in greco significa “portatore di luce”). Esistono tre forme allotropiche identificate dal loro colore: il fosforo bianco, che si ossida rapidamente assumendo una colorazione giallognola, brucia spontaneamente all’aria alla temperatura di circa 35°C, si conserva sott’acqua, ha consistenza cerosa ed un caratteristico odore agliaceo, è estremamente velenoso, necrotizza i tessuti ed è la forma più commercializzata per le sue proprietà chimiche; il fosforo rosso, che si ottiene da quello bianco per riscaldamento in assenza d’aria, è la forma più stabile, non è infiammabile spontaneamente ma si incendia solo per impatto o sfregamento e perciò utilizzato per la fabbricazione dei fiammiferi, è privo di tossicità; il fosforo nero, che si ottiene riscaldando il fosforo bianco o il fosforo rosso sotto altissime pressioni, è simile alla grafite ed ha pochissime applicazioni. Il fosforo è insolubile in acqua e poco solubile in alcool. Il fosforo bianco è solubile in oli e grassi ed in altri solventi organici, mentre non lo è il fosforo rosso.
Le funzioni biologiche del fosforo
Il fosforo è uno degli elementi essenziali alla vita animale e vegetale, in quanto svolge numerose funzioni biologiche di fondamentale importanza. Nel corpo umano è presente in tutte le cellule, sia in forma inorganica che organica, in quantità di poco inferiore all’1%. Si trova nelle ossa e nei denti (80-85%%), nel tessuto muscolare (10%), nel cervello (1%), nel sangue (0,5%) e la restante parte negli altri tessuti. Nelle ossa e nei denti si trova come fosfato di calcio, che è il costituente essenziale della frazione minerale. Nel sangue è presente sotto forma di fosfato di sodio, il quale funziona come sistema tampone per concorrere a mantenere l’equilibrio acido-base dell’organismo. Nelle cellule predominano i fosfolipidi e le fosfoproteine, oltre ai fosfati organici, come costituenti di numerose e importantissime molecole, tra cui l’acido desossiribonucleico (DNA) che contiene le informazioni genetiche necessarie alla biosintesi di RNA e proteine, e l’adenosintrifosfato (ATP) che è la principale forma di accumulo di energia immediatamente disponibile per svolgere qualsiasi tipo di lavoro biologico. Il fosforo sotto forma di acido fosforico assume un ruolo basilare nel metabolismo intermedio di tutte le cellule. Il metabolismo intermedio è il processo che rappresenta la trasformazione delle sostanze complesse contenute negli alimenti (carboidrati, proteine e grassi) in sostanze più semplici (zuccheri semplici, aminoacidi e acidi grassi) grazie all’azione di sistemi enzimatici. Da tali sostanze, previa ossidazione con la respirazione cellulare, viene poi estratta l’energia per tutte le funzioni organiche. Inoltre, composti del fosforo assicurano la funzionalità renale e la trasmissione degli impulsi nervosi, stimolano le contrazioni muscolari, compresa quelle del muscolo cardiaco, sono i costituenti fondamentali di molti enzimi per la loro attivazione, tra cui le fosfatasi e regolano tanti altri importanti processi biochimici.
Fosforo e alimentazione
I fosfati organici, assunti con l’alimentazione, vengono scissi in fosfati inorganici per mezzo di enzimi e assorbiti nell’intestino tenue fino al 70%. L’eliminazione dei fosfati avviene con le urine, con le feci e una piccola parte con il sudore.
Raramente si verificano casi di carenza di fosforo, in quanto i fosfati si trovano in una grande varietà di alimenti, quali ad es. cereali, legumi, uova, carne, pesce. L’industria alimentare utilizza ampiamente i polifosfati come additivi (classificati con la sigla che va da E400 a E495), per migliorare l’aspetto e la consistenza di vari alimenti (formaggi fusi, carni in scatola, prosciutto cotto, salumi, insaccati, salse, budini, surimi, bastoncini di pesce, ecc.) e come addensanti per aumentare la quantità di acqua trattenuta. Nei prodotti industriali di pasticceria vengono utilizzati come agenti lievitanti. Anche le bibite a base di cola hanno un contenuto di fosfati abbastanza alto.
Il fabbisogno di fosforo per il nostro organismo dipende dall’assunzione di calcio e, come per quest’ultimo, il suo assorbimento nell’intestino è regolato dalla vitamina D. Il rapporto ideale fosforo/calcio dovrebbe essere di circa 1:1, ma in genere con la normale alimentazione esso tende ad essere sbilanciato a favore del fosforo, dato che gli alimenti di origine animale contengono molto fosfato e, ad eccezione di latte e derivati, poco calcio. Negli adulti il fabbisogno di fosforo è tra 800 e 1000 mg/die. Una pur improbabile carenza di fosforo può determinare difficoltà nella crescita, disturbi ossei come l’osteoporosi, alterazioni della conduzione nervosa, stanchezza mentale e fisica. Un eventuale eccesso può determinare un sovraccarico della funzionalità renale.
Fosforo e cerali
Le concentrazioni più elevate di fosfati si trovano praticamente in tutti i semi sotto forma di acido fitico (dunque in cereali, legumi e semi oleosi) e nei cereali soprattutto nella buccia (cioè nella crusca). L’acido fitico inibisce l’assorbimento di calcio, ferro, magnesio, manganese, rame e zinco, in quanto si lega facilmente e solidamente con questi minerali per formare dei sali misti (fitati, a volte si usa indifferentemente il termine fitina per l’acido fitico o per i suoi sali) non assorbibili, quindi, dall’intestino. Nella produzione del pane, durante la lievitazione, viene attivato un enzima, la fitasi, anch’esso contenuto nei chicchi dei cereali (ma anche negli altri semi), che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare, il quale degrada l’acido fitico (defosforilazione), indebolendo, sciogliendo o impedendo i suddetti legami e migliorando così la disponibilità nell’organismo dei minerali in questione. Le fitasi si attivano proprio grazie all’ambiente acido che si forma durante il processo di lievitazione.
Ma anche l’ambiente acido e caldo dello stomaco contribuisce ad attivare le fitasi ingerite con gli alimenti e quindi a dare luogo alle reazioni di defosforilazione che, come detto, neutralizzano l’azione negativa dell’acido fitico. Però all’acido fitico si attribuiscono anche alcune proprietà benefiche per l’organismo, come ad es. di essere un potente antiossidante (legandosi al ferro in eccesso ed impedendo, quindi, la formazione del pericoloso radicale libero ossidrile), di comportarsi da agente chelante di eventuali metalli pesanti, di prevenire l’osteoporosi per la maggiore densità ossea che induce.
Fosforo e l’energia biochimica
Il fosforo, come già accennato, rappresenta l’energia chimica indispensabile al nostro organismo per compiere tutte le sue funzioni, rappresenta cioè il combustibile dell’organismo, in quanto, sotto forma di gruppo fosfato, è un componente essenziale di particolari categorie di molecole preposte alla conservazione ed alla successiva liberazione dell’energia richiesta dall’organismo. Le molecole in questione rispondono al nome di ATP – adenosina trifosfato – e si trovano all’interno delle cellule, precisamente nei mitocondri che sono organuli cellulari contenuti nel citoplasma. Tali molecole funzionano come dei veri e propri “accumulatori elettrici”, dove l’energia contenuta negli alimenti, che si rende disponibile per mezzo della respirazione cellulare e della conseguente ossidazione delle sostanze nutritive derivanti dalla digestione, viene conservata e tenuta pronta per l’uso. Più precisamente, con la digestione i macronutrienti contenuti negli alimenti (carboidrati, lipidi, proteine) vengono ridotti in componenti elementari (zuccheri semplici, grassi saturi, aminoacidi); con la respirazione cellulare, ove il substrato fondamentale è il glucosio, questi vengono demoliti in sostanze ancora più semplici ottenendo energia disponibile alle cellule sotto forma di ATP. Tale energia viene, cioè, immagazzinata nei legami ad alta energia contenuti nelle ATP, che sono quelli che legano tra loro i tre gruppi fosfato, per essere poi liberata tramite una reazione di idrolisi che scinde tali legami, producendo, inoltre, molecole di ADP – adenosina difosfato – che a loro volta, tramite una reazione di fosforilazione che aggiunge un gruppo fosfato, sintetizzano nuovamente le ATP, chiudendo così la catena.
Fosforo e ambiente
In natura esiste un ciclo del fosforo. Il fosforo presente nelle acque e nel terreno viene utilizzato dagli organismi vegetali (batteri, alghe, piante superiori). Da questi passa agli animali nei quali, come abbiamo visto, esplica soprattutto, sotto forma di diversi composti, sia una funzione plastica che una funzione energetica. Dai resti di animali e di piante il fosforo ripassa poi al terreno, mentre una buona parte di quello che passa nel mare ritorna al terreno soprattutto sotto forma di guano depositato dagli uccelli marini.
Il ciclo naturale con cui il fosforo ripassa al terreno è però assai lento, non conciliabile per un’agricoltura intensiva e ciò obbliga a notevoli integrazioni. Composti del fosforo, sotto forma di fosfati naturali o artificiali, minerali od organici, più solubili o solubilizzabili di quelli naturalmente presenti nel terreno, sono utilizzati nella produzione di fertilizzanti per assicurare alle piante la nutrizione fosfatica atta a regolare il livello, sia quantitativo che qualitativo, delle coltivazioni agricole. I fosfati di origine minerale, solubili in acqua e per questo assorbibili dalle piante, si ottengono trattando i minerali fosfatici con acido fosforico.
Il tripolifosfato di sodio è il composto più usato nei detergenti domestici per la sua capacità di disperdere il sudicio inorganico e di dolcificare l’acqua.
Altri usi del fosforo
I fosfati vengono anche impiegati dall’industria cosmetica nella produzione dei dentifrici, dove il fosfato di calcio è il più comune agente debolmente abrasivo.
Miscele speciali contenenti acido fosforico sono usate in metallurgia per fosfatizzare le superfici dei metalli, rivestendo le stesse con uno strato aderente di fosfati insolubili che proteggono il metallo dalla corrosione e offrono un fondo assai aderente per la verniciatura.
Altri utilizzi del fosforo si trovano nella produzione di esplosivi e di fuochi artificiali.
Il fosforo bianco è stato vietato da oltre un secolo (nel 1906) nella composizione dei fiammiferi e sostituito dal fosforo rosso, perché elemento altamente tossico e velenoso, anche se solamente inalato. La dose letale media per l’uomo è di 50 mg. Il fosforo bianco viene usato in alcuni veleni per topi per provocare emorragie interne.
In omeopatia il fosforo bianco viene utilizzato come sostanza attiva di base per la preparazione del rimedio omeopatico Phosphorus.

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Come già accennato le diluizioni dei rimedi omeopatici contrassegnate dalla sigla D o dalla sigla DH (in Italia solitamente si adopera la D), sono le diluizioni decimali hahnemanniane (rapporto soluto/soluzione = 1/10), dal nome del padre dell’omeopatia classica Samuel Hahnemann (1755-1843, medico tedesco). Le diluizioni omeopatiche contrassegnate dalla sigla C o dalla sigla CH (in Italia solitamente si adopera la CH), sono le diluizioni centesimali hahnemanniane (rapporto soluto/soluzione = 1/100). La cifra numerica che segue o precede una delle suddette sigle indica quante volte è stata operata la relativa diluizione. Ad esempio la diluizione (o la potenza) D6 sta a significare che la sostanza di origine o, per meglio dire, il ceppo omeopatico è stato diluito 6 volte nel rapporto 1:10 e dinamizzato ad ogni passaggio. Invece la diluizione (o la potenza) 6CH sta a significare che il ceppo omeopatico è stato diluito 6 volte nel rapporto 1:100 e dinamizzato ad ogni passaggio.
Le diluizioni korsakoviane, dal nome del loro ideatore Simeon Nicolaievitch Korsakov (1788-1853, consigliere di stato russo), connotate dalla sigla K, si preparano utilizzando sempre lo stesso flacone e per questo sono anche denominate “del flacone unico”. In tale unico flacone vengono eseguite tutte le diluizioni e le dinamizzazioni necessarie, impiegando come solvente dell’acqua distillata. Un possibile metodo di preparazione consiste nel riempire di ceppo omeopatico (ad es. di tintura madre) un flacone da 100 ml che poi si svuota per aspirazione. Sulle pareti del flacone si presuppone che sia rimasta adesa una quantità di sostanza pari a 1/100 del suo precedente contenuto. Dopo di che si riempie lo stesso flacone con acqua distillata, la cui quantità è pari a 99 volte la quantità di sostanza rimasta sulle pareti del flacone, si effettuano le 100 succussioni e si ottiene così la prima diluizione korsakoviana 1K. Si prosegue sempre con le stesse modalità per le diluizioni successive 2K, 3K, 4K e così via. Anche qui la cifra numerica che precede la sigla K indica quante volte è stata operata la diluizione.
con tutte le limitazioni accennate, si può dire che approssimativamente è possibile accettare la tabella di equivalenza, a lato riportata, in funzione della sola concentrazione molecolare e quindi della sola diluizione.



Ratafià di iperico, ottimo aperitivo e digestivo (stimola l’appetito, facilita la digestione, impedisce l’acidità di stomaco, ecc.). Si mettono a macerare, per circa 15 giorni, in una bottiglia ben chiusa, 2 litri di acquavite e 30 g di fiori secchi di iperico con 2 limoni tagliati. Si filtra, comprimendo bene il residuo, si aggiungono 150 g di zucchero e si imbottiglia per la conservazione.

Come preparare una crema di alchemilla. La nonna la usava moltissimo perché ne apprezzava le molteplici virtù e ne teneva in casa sempre una scorta. Oggi alle creme di questa pianta si riconoscono diverse proprietà terapeutiche, come quelle di curare e lenire le infiammazioni e le irritazioni cutanee, di donare tonicità ed elasticità alla pelle, di idratare, di cicatrizzare, di normalizzare l’eccessiva produzione sebacea ed altro ancora. La nonna la preparava così. Si prendono 2 g di estratto fluido di alchemilla (la comune tintura madre), 12 g di idrolato di rosa (costituisce la parte acquosa della crema e oltre a dare la profumazione aiuta a donare tonicità alla pelle), 10 g di lanolina e 30 g di vasellina, che costituiscono la base grassa (eccipiente). Si sciolgono la lanolina e la vasellina in un contenitore scaldato a bagnomaria. Si aggiungono l’idrolato di rosa e l’estratto fluido di alchemilla e si fa bollire il tutto a fuoco lento per pochi minuti, mescolando continuamente per evitare che si attacchi. Prima che il composto si raffreddi si versa in vasetti non trasparenti con coperchio per la conservazione ed il successivo uso.









Lycopodium clavatum (nome italiano Licopodio) è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Licopodiaceae. Cresce su suoli prevalentemente acidi e silicei, sia in zone temperate che in quelle più fredde montane di Europa, Asia, America settentrionale e Africa australe. In Italia la si trova sia nelle radure boscose che nei pascoli delle Alpi e degli Appennini fin oltre i 2000 metri.
La spiegazione di questo particolare quadro psichico, contorto e contraddittorio, la si può trovare nella metafora legata alle origini della pianta, da cui il rimedio omeopatico si ottiene. Il Lycopodium in epoca remota era una pianta grande e maestosa, abituata a guardare tutti dall’alto in basso. Attualmente è una pianta strisciante al suolo, un cespuglio, con il timore di essere calpestato da chiunque. Cosicché il Lycopodium omeopatico è una persona che pur essendo piccola e timorosa, sogna e spera di diventare grande come una volta: ha la voglia di emergere e la paura di non riuscirvi, manca cioè di coraggio. Ecco quindi che tende a rodersi e per prima cosa si rode il fegato, che è appunto il simbolo del coraggio. Il fegato pertanto diventa l’organo bersaglio e sarà interessato da diverse patologie. Da qui hanno origine tutte le disfunzioni del paziente.












conservanti. Ancora oggi è prodotto dall’industria cosmetica seguendo la ricetta tradizionale. Gli ingredienti sono: olio di oliva, soda caustica (idrossido di sodio NaOH) e olio di alloro (V. ricetta precedente). L’olio di oliva viene cotto lentamente per alcuni giorni aggiungendo la soda caustica per la saponificazione. Al termine della cottura, durante il raffreddamento, si aggiunge l’olio di alloro. Il sapone, che è ancora di colore verde, viene quindi colato negli stampi e lasciato essiccare per un anno intero, al termine del quale la colorazione diventa di un verde dorato. Il minore o maggiore pregio del sapone dipende dalla percentuale di olio di alloro contenuta, che in genere varia dal 5 al 60%.